Anche MEDEST qualche mese fa ha pubblicato un articolo in proposito, in cui oltre ad evidenziare i risultati dello studio veniva caldeggiata l’ipotesi che tutti i sistemi d’emergenza prendessero in considerazione l’inserimento dell’Acido Tranexamico nei propri protocolli sul politrauma.
L’entusiasmo è generale e scorrendo la letteratura è molto difficile trovare voci meno che entusiastiche sul tema. Nessuna traccia di dissenso.
E’ quindi con favore che accogliamo ed ospitiamo questo recente editoriale pubblicato su “The Medical Journal of Australia” dal titolo “Trauma and tranexamic acid” ed a firma di Russell L Gruen, Ian G Jacobs a e Michael C Reade (credits).
In sostanza gli autori sottolineano alcuni dubbi sia sul metodo che sul merito. Vediamo quali:
- Solo il 2% dei pazienti arruolati da CRASH-2 sono assimilabili a quelli trattati nei moderni sistemi trauma (nonostante lo studio si sia svolto in luoghi che hanno trauma systems molto avanzati) in cui l’accesso ai prodotti ematici, alla radiologia interventistica, alla damage-control surgery ed in generale all’area intensiva sono routinariamente disponibili. La mortalità di base indicata nel lavoro infatti è molto superiore a quella dei sistema trauma più evoluti, e questo potrebbe aver condizionato la significatività statistica a favore della sopravvivenza.
- Sembra molto sotto-investigata la possibile interazione dell’Acido Tranexamico con altre terapie tese a contrastare il sanguinamento e le coagulopatie post-trauma. Lo stato ipercoagulativo indotto dall’Acido Tranexamico potrebbe infatti (teoricamente) favorire l’insorgenza di complicanze spesso fatali, come l’embolia polmonare e la trombosi venosa profonda, tipiche del paziente politraumatizzato. Queste complicanze che nel CRASH-2 sono molto rare, nello studio parallelo, condotto in ambito militare (MATTERs study), sono rispettivamente 9 e 12 volte maggiori nella popolazione trattata con Acido Tranexamico rispetto a quella di controllo.
- Alcuni dubbi inoltre sorgono sull’effetto biochimico dell’acido tranexamico che riducendo l’azione fibrinolitica della plasmina tende ad indurre una coagulopatia acuta post-traumatica (ATC). Questa complicanza è in effetti poco correlata con il trauma in se stesso (sol 1 paziente su 10 ne soffre), mentre sembra essere molto frequente (per circa il 50% dei casi) nei pazienti politraumatizzati che vengono massivamente trasfusi. E visto che l’acido Tranexamico è frequentemente parte dei protocolli in cui sono previsti alte dosi di emazie concentrate o di altri fattori ematici, il dubbio sorge spontaneo. Nel CRASH-2 questa possibile correlazione non viene adeguatamente indagata e smentita.
Sicuramente uno studio, anche se ben potenziato e condotto rigorosamente, non può essere conclusivo. I dubbi espressi nell’articolo menzionato sono legittimi sia dal punto di vista scientifico, che metodologico.
A tal proposito sono già in programma (negli USA ed in Australai) altri trial che prenderanno in considerazione, cercando di dargli una risposta, i dubbi lasciati irrisolti da CRASH-2.
Attendiamo fiduciosi e vigiliamo su ogni possibile cambiamento.
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