domenica 15 marzo 2015

MEDEST:Una voce fuori dal coro sull’utilità dell’Acido Tranexamico nel trauma.


MEDEST ha pubblicato un articolo in proposito, in cui oltre ad evidenziare i risultati dello studio veniva caldeggiata l’ipotesi che tutti i sistemi d’emergenza prendessero in considerazione l’inserimento dell’Acido Tranexamico nei propri protocolli sul politrauma.
L’entusiasmo è generale e scorrendo la letteratura è molto difficile trovare voci meno che entusiastiche sul tema. Nessuna traccia di dissenso.
E’ quindi con favore che accogliamo ed ospitiamo questo recente editoriale pubblicato su “The Medical Journal of Australia” dal titolo “Trauma and tranexamic acid” ed a firma di Russell L Gruen, Ian G Jacobs a e Michael C Reade (credits).
In sostanza gli autori sottolineano alcuni dubbi sia sul metodo che sul merito. Vediamo quali:
Solo il 2% dei pazienti arruolati da CRASH-2 sono assimilabili a quelli trattati nei moderni sistemi trauma (nonostante lo studio si sia svolto in luoghi che hanno trauma systems molto avanzati) in cui l’accesso ai prodotti ematici, alla radiologia interventistica, alla damage-control surgery ed in generale all’area intensiva sono routinariamente disponibili. La mortalità di base indicata nel lavoro infatti è molto superiore a quella dei sistema trauma più evoluti, e questo potrebbe aver condizionato la significatività statistica a favore della sopravvivenza.
Sembra molto sotto-investigata la possibile interazione dell’Acido Tranexamico con altre terapie tese a contrastare il sanguinamento e le coagulopatie post-trauma. Lo stato ipercoagulativo indotto dall’Acido Tranexamico potrebbe infatti (teoricamente) favorire l’insorgenza di complicanze spesso fatali, come l’embolia polmonare e la trombosi venosa profonda, tipiche del paziente politraumatizzato. Queste complicanze che nel CRASH-2 sono molto rare, nello studio parallelo, condotto in ambito militare (MATTERs study), sono rispettivamente 9 e 12 volte maggiori nella popolazione trattata con Acido Tranexamico rispetto a quella di controllo.
Alcuni dubbi inoltre sorgono sull’effetto biochimico dell’acido tranexamico che riducendo l’azione fibrinolitica della plasmina tende ad indurre una coagulopatia acuta post-traumatica (ATC). Questa complicanza è in effetti poco correlata con il trauma in se stesso (sol 1 paziente su 10 ne soffre), mentre sembra essere molto frequente (per circa il 50% dei casi) nei pazienti politraumatizzati che vengono massivamente trasfusi. E visto che l’acido Tranexamico è frequentemente parte dei protocolli in cui sono previsti alte dosi di emazie concentrate o di altri fattori ematici, il dubbio sorge spontaneo. Nel CRASH-2 questa possibile correlazione non viene adeguatamente indagata e smentita.
Sicuramente uno studio, anche se ben potenziato e condotto rigorosamente, non può essere conclusivo. I dubbi espressi nell’articolo menzionato sono legittimi sia dal punto di vista scientifico, che metodologico.
A tal proposito sono già in programma (negli USA ed in Australai) altri trial che prenderanno in considerazione, cercando di dargli una risposta, i  dubbi lasciati irrisolti da CRASH-2.

Attendiamo fiduciosi e vigiliamo su ogni possibile cambiamento.

MEDEST: Il drenaggio toracico in emergenza sanitaria.

Il drenaggio del pneumotorace iperteso secondo le linee guida attuali (ATLS, PHTLS, ITLS ecc..) va effettuato mediante decompressione con ago in 2° spazio intercostale sulla linea emiclaveare.
Sempre maggiori evidenze indicano comunque che il punto di drenaggio ed il metodo indicato non garantiscono in tutte le situazioni il risultato ottimale.
Il posizionamento di un drenaggio toracico al 5° spazio intercostale sulla linea ascellare media viene da molti indicato come la procedura ed il posizionamento migliore per affrontare non solo per il drenaggio del pneumotorace ma anche altre emergenze traumatiche rapidamente evolutive.

Indications for pre-hospital thoracostomy
Absolute indications
Traumatic arrest
Low output state of unknown cause
Tension pneumothorax as diagnosed by
–Hypoxia
–Hypotension
–Absent breath sounds
–Tracheal shift

Relative indications

Positive pressure ventilation (PPV) + chest signs localised to a hemithorax
–Reduced air entry
–Surgical emphysema
–Unilateral wheeze
–Bony crepitations (rib fractures)

Hypoxia or hypotension + chest signs localised to a hemithorax

No indication
Simple pneumothorax
Unilateral chest signs without PPV, hypoxia or hypotension



La toracostomia sembra essere gravata da minor numero di complicanze e, se praticata a livello del 5° spazio intercotale, garantisce una maggiore efficacia ed una minore possibilità di danneggiare strutture vitali.
La possibilità d’inserire un drenaggio di discrete dimensioni (16/14 Fr) garantisce inoltre contro il kinking della cannula che di solito è usata per la decompressione con ago.
La tecnica toracostomica deve essere compatibile con la posizione del paziente (supino ed immobilizzato su asse spinale) con l’ambiente in cui si lavora (che sia in mezzo ad una strada o nella stanza d’emergenza del DEA) e non deve ritardare o essere incompatibile con le manovre rianimatorie.
Deve quindi essere il più rapida possibile ed adattabile a setting e gradi d’esperienza diversi.
In questo video il metodo che prevede una piccola incisione del torace e dei piani sotocutanei col bisturi, la dissezione dei piani  muscolari e della pleura parietale con utilizzo di un piccolo Klemmer e del dito, in modo rapido ed efficace.


Questa tecnica facilmente e rapidamente attuabile in tutti i setting e relativamente semplice da acquisire, potrebbe essere quella più indicata in ambiente ostile od in situazioni d’urgenza.
E’ inoltre descritta e praticata in molti sistemi di elisoccorso, l’utilizzo della tecnica toracostomica semplice per pazienti che sono intubati e ventilati a pressione positiva o in arresto cardiaco post-trauma.
Essa prevede l’apertura del torace (con tecnica simile alla precedente) ma senza l’inserzione del tubo di drenaggio. La stomia viene quindi lasciata aperta o in alcuni casi chiusa con un bendaggio aperto su un lato. E’ inoltre possibile inserire, attraverso la stessa incisione, un tubo di drenaggio in caso di presenza di emotorace massivo.
Al posto di un drenaggio toracico classico può essere in ogni caso utilizzato un tubo orotracheale del 7 passato con tecnica di Seldinger sul Bougie precedentemente inserito nella ferita toracostomica. Per il suo fissaggio verrà quindi utilizzato il gonfiaggio della cuffia del tubo stesso oltre al classico fissaggio esterno con punti di sutura. Può essere collegata alla ua estremità una valvola di Heimlich.
Non tutti sono d’accordo con l’utilizzo della tecnica toracostomica in urgenza, e prediligono ad essa la decompressione con ago.
In particolare ne contestano la velocità d’esecuzione in urgenza, garantita solo da operatori estrememente esperti,  e la relativa assenza di complicanze.
Consigliano quindi l’approccio con ago, di dimensioni adeguate, in posizione emiclaveare che viene indicata come una metodica sicuramente più rapida ed adeguata a tutti gli operatori in situazioni critiche.
Bottom line:
Hai un paziente politraumatizzato con segni di trauma toracico e clinica dubbia, che si sta rapidamente deteriorando dal punto di vista emodinamico. Inserisci un agocannula del 14 in 2° spazio intercostale sull’emiclaveare senza evidente fuoriuscita di aria. Le condizioni peggiorano ulteriormente.
Sei sicuro di aver fatto la manovra più adatta per risolvere la sospetta causa che sta precipitando lo stato del paziente?
La puntura in 2° spazio intercostale non garantisce sempre il drenaggio.
L’utilizzo di un angiocatetere vista la ridotta lunghezza non garantisce il raggiungimento della pleura.
Se preferisci la decompressione con ago utilzza un catetere specifico la cui lunghezza garantisca il raggiungimento della pleura e la cui struttura eviti il kinking della cannula
L’utilizzo di una tecnica toracostomica in 5° spazio intercostale sull’ascellare media garantisce maggior percentuale di successo.
L’inserzione di un drenaggio toracico attraverso la stomia garantisce il raggiungimento dello spazio pleurico.
La tecnica che sia semplice, con drenaggio classico o mediante utilizzo di tubo orotracheale è sicuramente applicabile in urgenza ed in tutti i setting dell’emergenza sanitaria.
Infine una considerazione personale: se ho un paziente gravemente instabile per un trauma toracico, o in ACR post trauma da rianimare, il mio primo pensiero è per un approccio toracostomico in ascellare media sul 4/5 spazio intercostale con tecnica semplice.

Mi da la certezza di entrare nello spazio pleurico, è rapido, ed ho sempre la possibilità attraverso la stessa stomia di inserire un drenaggio in caso di presenza di emotorace massivo.

Attenzione: il video contiene immagini cruente.

MEDEST:Ossigenoterapia: il Giano bifronte della rianimazione cardiopolmonare


E comunque sempre ossigeno A' gogo!
-Prego?
Si, tanto l'ossigeno fa sempre bene!
-Cosa?
Bene che vada risolve l'ipossia, male che vada non fa danni!
-Ma stai scherzando? Ma i danni da iperossia?

La conversazione, ricostruita per fiction, riflette comunque una certa confusione che circonda l’uso dell’O2 terapia nell’emergenza medica sia intra che extraospedaliera.
Prendendo spunto da un recente lavoro sull’uso dell’O2 durante la rianimazione cardiopolmonare, e visto che in letteratura ci sono dati sufficientemente solidi, si può dunque mettere dei punti fermi sull’uso dell’ossigenoterapia, anche durante la rianimazione cardiopolmonare.
Il lavoro a cui accennavamo è Increasing arterial oxygen partial pressure during cardiopulmonary resuscitation is associated with improved rates of hospital admission. Walter Spindelboeck e gli altri autori hanno investigato (in modo retrospettivo su un database irlandese di ACR extraospedalieri) l’impatto dell’O2 somministrato durante la RCP a pazienti vittima di ACR non traumatico.
Durante le fasi di ALS veniva effettuato un EGA ed i pazienti venivano assegnati, a secondo della PaO2 rilevata, a tre differenti gruppi: alta, media, bassa PaO2.
L’outcome primario era l’ammissione in ospedale (e presenza di circolo spontaneo per almeno 1 ora); venivano inoltre registrati la percentuale di ROSC e la percentuale di sopravvivenza a 28 gg.
I risultati, che, va detto, vanno in senso contrario rispetto a quello che gli autori stessi attendevano,  dimostrano che i pazienti del gruppo “alta PaO2″ hanno outcome migliori rispetto a quelli del gruppo medio e basso.
Viene quindi confermato (come raccomandato dalle linee guida ALS 2010), con dati recenti, che la somministrazione di alte dosi (flusso e FiO2) di O2 durante la RCP migliora la sopravvivenza.
Alla ripresa del circolo spontaneo al contrario, tutti i riferimenti di letteratura (2,3,4), indicano come la persistente iperossia inneschi meccanismi potenzialmente dannosi sul metabolismo cellulare, ed è quindi da evitare.
In pratica dopo il ROSC l’ossigeno va somministrato mirando dei target (SaO2, EtCO2) e non indiscriminatamente ad alti flussi e con FiO2 elevate.
La rianimazione cardiopolmonare si configura così come una sorta di Giano bifronte rispetto alla somministrazione dell’O2; il punto di svolta è il ripristino del circolo spontaneo.
Durante la RCP (periodo a bassa pressione di circolo)  a livello intracellulare e tissutale, la tensione di O2 raggiunge livelli appena sufficienti solo con ventilazione adeguata ed ossigenazione massimale (100% di FiO2 ed alti flussi); alla ripresa del circolo, migliorando il DO2, aumenta a livello tissutale (specie cerebrale) il rischio di iperossia, con tutti  i danni che oramai ben conosciamo.
L’ALS e la gestione del paziente post-ACR acquisiscono così un tassello qualificante nel lavoro dispendioso ma spesso povero di soddisfazioni del “resuscitatore”.

La cura dei dettagli, la personalizzazione “ad pazientem” dell’oggettività del semplice protocollo, fa la differenza tra una buona ed un “meno buona” gestione di un ACR.

MEDEST:Una voce fuori dal coro sull’utilità dell’Acido Tranexamico nel trauma.

4I risultati dello studio  portato prepotentemente all’attenzione dei professinisti sanitari l’uso dell’acido Tranexamico nel paziente traumatizzato.
Anche MEDEST qualche mese fa ha pubblicato un articolo in proposito, in cui oltre ad evidenziare i risultati dello studio veniva caldeggiata l’ipotesi che tutti i sistemi d’emergenza prendessero in considerazione l’inserimento dell’Acido Tranexamico nei propri protocolli sul politrauma.
L’entusiasmo è generale e scorrendo la letteratura è molto difficile trovare voci meno che entusiastiche sul tema. Nessuna traccia di dissenso.
E’ quindi con favore che accogliamo ed ospitiamo questo recente editoriale pubblicato su “The Medical Journal of Australia” dal titolo “Trauma and tranexamic acid” ed a firma di Russell L Gruen, Ian G Jacobs a e Michael C Reade (credits).
In sostanza gli autori sottolineano alcuni dubbi sia sul metodo che sul merito. Vediamo quali:
  1. Solo il 2% dei pazienti arruolati da CRASH-2 sono assimilabili a quelli trattati nei moderni sistemi trauma (nonostante lo studio si sia svolto in luoghi che hanno trauma systems molto avanzati) in cui l’accesso ai prodotti ematici, alla radiologia interventistica, alla damage-control surgery ed in generale all’area intensiva sono routinariamente disponibili. La mortalità di base indicata nel lavoro infatti è molto superiore a quella dei sistema trauma più evoluti, e questo potrebbe aver condizionato la significatività statistica a favore della sopravvivenza.
  2. Sembra molto sotto-investigata la possibile interazione dell’Acido Tranexamico con altre terapie tese a contrastare il sanguinamento e le coagulopatie post-trauma. Lo stato ipercoagulativo indotto dall’Acido Tranexamico potrebbe infatti (teoricamente) favorire l’insorgenza di complicanze spesso fatali, come l’embolia polmonare e la trombosi venosa profonda, tipiche del paziente politraumatizzato. Queste complicanze che nel CRASH-2 sono molto rare, nello studio parallelo, condotto in ambito militare (MATTERs study), sono rispettivamente 9 e 12 volte maggiori nella popolazione trattata con Acido Tranexamico rispetto a quella di controllo.
  3. Alcuni dubbi inoltre sorgono sull’effetto biochimico dell’acido tranexamico che riducendo l’azione fibrinolitica della plasmina tende ad indurre una coagulopatia acuta post-traumatica (ATC). Questa complicanza è in effetti poco correlata con il trauma in se stesso (sol 1 paziente su 10 ne soffre), mentre sembra essere molto frequente (per circa il 50% dei casi) nei pazienti politraumatizzati che vengono massivamente trasfusi. E visto che l’acido Tranexamico è frequentemente parte dei protocolli in cui sono previsti alte dosi di emazie concentrate o di altri fattori ematici, il dubbio sorge spontaneo. Nel CRASH-2 questa possibile correlazione non viene adeguatamente indagata e smentita.
Sicuramente uno studio, anche se ben potenziato e condotto rigorosamente, non può essere conclusivo. I dubbi espressi nell’articolo menzionato sono legittimi sia dal punto di vista scientifico, che metodologico.
A tal proposito sono già in programma (negli USA ed in Australai) altri trial che prenderanno in considerazione, cercando di dargli una risposta, i  dubbi lasciati irrisolti da CRASH-2.
Attendiamo fiduciosi e vigiliamo su ogni possibile cambiamento.

MEDEST: Via cielo o via terra. Quale è il miglior sistema di soccorso al paziente traumatizzato?

13LUG

Amb vs HEMSSu Critical Care viene comparato l’impatto dei due diversi sistemi di soccorso preospedaliero sui pazienti traumatizzati.

Lo studio che si è svolto in Germania ha coinvolto 13.220 pazienti (estratti dal

Trauma Register DGU della German Society for Trauma Surgery dal 2007 al 2009) di cui, il 37,7% è stato trasportato dall’ elicottero, mentre il restante 67,3% da mezzi di terra. Entrambi i mezzi erano medicalizzati e comparabili per livello di professionalità e risorse su essi allocate.

I risultati indicano una maggiore sopravvivenza nei pazienti trasportati in elicottero rispetto a quelli trasportati via terra.

Questo studio è il più recente di tanti simili che sono volti a verificare l’appropriatezza e l’utilità del sistema di elisoccorso nel soccorso priamrio preospedaliero.

Il trasporto via aria infatti, se da una parte prospetta tempi di trasporto più rapidi ed accesso a punti remoti del territorio non  altrimenti raggiungibili in tempi congrui, d’altra parte impone un notevole  investimento in termini di risorse economiche ed umane.

Dopo la lettura dell’articolo (ancora pubblicato solo in via preliminare sul web) emergono alcuni dati molto interessanti:

Tipo e gravità dei pazienti trasportati
I pazienti trasportati in elisoccorso sono più giovani prevalentemente maschi e con ISS maggiore (26 vs 13,3)
Tempo sulla scena e tempo di evacuazione.
Il tempo sulla scena (39,5 vs 28,9 min) e quello di arrivo in ospedale (78,5 vs 61,1 min) risultano superiori per gli equipaggi di elisoccorso. A fronte di una sensibilità e specificità diagnostica preospedaliera  assolutamente sovrapponibile rispetto agli equipaggi “terrestri”, in elisoccorso infatti venivano praticate molte più procedure.
Le due procedure maggiormente praticate in elisoccorso e con più forte impatto sulla sopravvivenza (e che di contro erano sottoutilizzate nei mezzi via terra), risultano essere l’intubazione orotracheale a sequenza rapida e l’inserzione del drenaggio toracico.
Ospedale di destinazione
I pazienti trasportati dall’elisoccorso avevano più chance di essere trasportati in un Trauma Center di I livello.
Questo però non influiva sulla mortalità in quanto i benefici erano ugualmente dimostrabili sui pazienti che l’elisoccorso trasportava nei centri di livello minore.
Complicanze intraospedaliere
I pazienti trasportati dall’elisoccorso avevano maggiore probabilità di sviluppare una MODS, mentre era sovrapponibile l’incidenza di sepsi.

Considerazioni

  • La sopravvivenza è influenzata positivamente dall’esecuzione di procedure salvavita (intubazione orotracheale a sequenza rapida, inserzione del drenaggio toracico); la maggior propensione dei medici che lavorano in elisoccorso ad attuarle fa la differenza sull’outcome pazienti soccorsi.

  • La specificità e la sensibilità della diagnosi preospedaliera è assolutamente sovrapponibile tra i due sistemi e non fa quindi la differenza sulla sopravvivenza.

  • Nonostante i paziente trasportati via cielo siano più frequentemente ammessi in un Trauma Center di I livello questo dato non sembra influenzare la sopravvivenza.

Il sistema d’emergenza coinvolto nello studio è simile (per profesionalità e mezzi impiegati) a quello italiano. Possiamo trarre quindi  indicazioni preziose dai suoi risultati. 

E’ auspicabile che i sistemi di emergenza preospedaliera motivino i propri professionisti all’esecuzione delle manovre salvavita necessarie nei pazienti vittima di trauma, attraverso l’adozione di protocolli specifici e l’adeguamento delle dotazini farmacologiche (quanti professionisti dell’emergenza preospedaliera non hanno ancora acesso ai bloccanti neuromuscolari!) e di presidi sanitari. 

L’esecuzione di tali manovre sembra infatti avere un impatto positivo determinante sulla sopravvivenza, anche al costo di una maggior pemanenza sulla scena dell’evento. 

Il miglioramento della sopravvivenza dei pazienti vittima di trauma deve essere una “mission” ed un elemento qualificante per tutti i sistemi di soccorso preospedaliero.

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