Articolo di Gabriele Beccaria
Un paio di scarpe verde militare,
di tela e di gomma, da tremila lire, estraneo alle mode, comprato nell'ultima
oasi prima del Grande Nulla. Carla Perrotti, esploratrice milanese di
cinquantuno anni, ha un moto di gratitudine. «Se non fosse stato per quelle
scarpe, avrei dovuto rinunciare... E' vero, la tecnologia non è tutto». Nel
pesante zaino giallo aveva il satellitare, il sistema di orientamento Gps, i
cibi disidratati, ma senza le autoctone scarpette cinesi oggi non celebrerebbe
il record: è il primo essere
umano ad aver attraversato a piedi, in solitaria, l'area più desolata
del secondo deserto del mondo, il terribile Taklimakan.
L'ha scelto perché evoca
immediatamente l'avventura: a Nord e a Sud, per secoli, l'hanno sfiorato le
carovane della Via della Seta, ma nessuna si spinse mai all'interno e solo in
tempi recenti qualche convoglio, ben attrezzato di mezzi e scorte, l'ha
percorso. «In lingua yugurì significa il deserto della morte irreversibile»,
racconta Carla Perrotti e, infatti, là si muore e si svanisce(*). Come Yu
Chun Shun, cinese quarantenne che sognava la grande impresa dell'attraversamento
e di cui si sono perse le tracce. «E' stato commovente che all'arrivo, nella
cittadina di Luo Tuan sia venuto suo padre. Voleva abbracciarmi».
A rendere il Taklimakan così maledetto sono le dimensioni, oltre 330 mila chilometri quadrati (più dell'Italia) e l'assenza di oasi nella sua sterminata zona centrale: «E per questo ha sempre suscitato terrore». Tanto che a Pechino, alla conferenza stampa, «centinaia di persone, incredule, hanno fatto la fila per chiedermi l'autografo e stringermi la mano. Erano ammirati e felici: li inorgogliva che ad aver avuto successo fosse stata una donna, non importa se straniera».
A rendere il Taklimakan così maledetto sono le dimensioni, oltre 330 mila chilometri quadrati (più dell'Italia) e l'assenza di oasi nella sua sterminata zona centrale: «E per questo ha sempre suscitato terrore». Tanto che a Pechino, alla conferenza stampa, «centinaia di persone, incredule, hanno fatto la fila per chiedermi l'autografo e stringermi la mano. Erano ammirati e felici: li inorgogliva che ad aver avuto successo fosse stata una donna, non importa se straniera».
Il piede piagato era finalmente
guarito. «Aveva cominciato a farmi male qualche giorno dopo la partenza, a
causa degli scarponcini, troppo tecnici, non sempre adatti alla varietà del
terreno, che a volte è fangoso, a volte duro, a volte soffice, a volte
accidentato». Dopo 150 chilometri Carla Perrotti era già a mal partito e di
fronte ne aveva ancora 400, da macinare in tutto in 24 giorni. «Nell'ultima oasi,
a Daheyan, ho comprato le provvidenziali scarpe di tela e di gomma: c'erano tre
casette di fango e la gente è corsa fuori a toccarmi. Mi ero portata dietro
qualche banconota quasi come un portafortuna. Chi avrebbe
immaginato che l’equivalente
di tremila lire italiane sarebbe stato decisivo?»
Dovevo stare attenta a controllare
la mente. Quando si è soli, soprattutto di notte, è facile crollare di colpo».
Le notti sono state l’incubo ricorrente di Caria Perrotti. «La temperatura
scendeva a dieci, dodici sotto zero e nella mia piccola tenda l'aria si
condensava e ghiacciava. Al mattino, poi, tutta l'attrezzatura era bagnata e
bisognava farla asciugare prima di riprendere la marcia». Così dal 26 ottobre
al 18 novembre, dalla sperduta Seghez alla sperduta Luo Tuan, in un'area che
continua ad allargarsi come gli altri deserti del pianeta: la sua desolazione è
contagiosa.
«L'altro problema era l'acqua. Nella
prima e nella terza parte del mio percorso riuscivo a recuperarla da pozze e
pozzanghere. Certo che anche dopo averla disinfettata sapeva sempre di terra.
Per fortuna, ne ho consumata meno del previsto, per il gran freddo». Nel tratto
centrale, invece, in un paesaggio segnato da altissime dune Si sabbia, non ce
n'era traccia. «Dato che non avrei potuto portarne abbastanza con me, una
squadra aveva piazzato quattro punti di rifornimento, che ho individuato con il
mio Gps. Sempre al primo colpo, anche se il sistema satellitare non è preciso
al metro».
«Mi sono trovata a galleggiare in
un oceano di sabbia, percorso da continui cavalloni, che costringono a
snervanti saliscendi. Nel Sahara, invece, le dune sono più ampie e non ci si
stanca così: spesso ci si può passare in mezzo». La media era venti chilometri
il giorno, con uno zaino da venti chili sulle spalle. «E a me che sono piccola,
con i miei cinquantacinque chili, sembrava davvero enorme». Due settimane di
arrampicate e scivolate, «in alto qualche uccello e a terra ragnetti. Non avevo
molto tempo a disposizione, perché là le notti sono interminabili. In questa
stagione durano dodici ore. Dovevo economizzare le batterie della torcia e
potevo leggere poco "D'Amore e Ombra" di Isabel Allende. Mi ha
aiutato. Ho avuto la riprova che si va avanti con la testa, non con i muscoli».
Nel deserto avviene una
metamorfosi mentale. «I ritmi cambiano: t'accorgi che diventi egoista, che ci
si concentra su se stessi. Quando in ballo c'è la sopravvivenza, s'impara a spiarsi,
a decifrare ogni segnale che invia il corpo. Che cosa significa quel dolore
alla gamba? E' l'indolenzimento alla mano? E' solo dopo che scopri che stai
entrando in armonia con l'ambiente. Allora godi di ciò che fai. Fissavo il
paesaggio, la sera, i colori della sabbia cangianti. Un ricordo? Era il 4
novembre, il mio onomastico, e splendeva la luna piena. Allora, invece di
dormire, mi sono messa a fare riprese. Ho sfiorato la felicità». Carla
Perrotti, sposata, un figlio, parla nella sua casa milanese, ma è come tornata
nel Taklimakan. «Ha ragione Bruce Chatwin: il camminare produce i pensieri.
Secondo me, il segreto sta nel selezionarli, per liberarsi. Devono essere lievi:
immagini, volti, canzoni. E
quando, invece di scivolare via, uno si fissa, ci si deve imporre: "Questo
no, adesso lo cancello”». Succede soltanto nel deserto e perciò Carla Perrotti,
atleta del «Sector No Limits team», continua ad attraversarli, da navigatrice
solitaria delle dune. «Questo era il quarto, dopo il Tenére, in Niger, il Salar
de Uyuni, sulle Ande boliviane, e il Kalahari, tra Botswana e Sud Africa».
Eppure un pensiero dominante
il Taklimakan l'ha fatto sbocciare, nonostante l'impegno delle ginnastiche
cerebrali: «E' arrivato il momento che mi prepari a un altro deserto. Quello
dell'Australia».
Deserto di Taklamakan Da Wikipedia, l'enciclopedia
libera.
Il deserto di Taklamakan (Takelamagan
Shamo; uiguro:
تەكلىماكان قۇملۇقى), anche
conosciuto come Taklimakan, è un deserto dell'Asia centrale, nella Regione Autonoma Uigura dello
Xinjiang nella parte occidentale della Repubblica
Popolare Cinese.
È la propaggine occidentale del deserto di Gobi; (per
alcuni completamente distinto da questo), è delimitato a sud dalle montagne Kunlun, a sud e ovest dal Pamir e a nord dalle Tien Shan. In lingua uigura il termine
significa: se ci vai, non ne esci più.
Copre
un'area di 270.000 km² nel bacino del Tarim,
estendendosi fra circa i 78° e gli 88° di longitudine est e fra i
37° e i 40° di latitudine
nord. (circa 450 km in direzione nord-sud e 1200 in direzione ovest-est). È uno
dei deserti a maggiore percentuale di superficie sabbiosa sotto forma di dune (85%). Essendo al
centro e punto di raccolta del bacino endoreico del
Tarim, il deserto raccoglie le piogge e le precipitazioni del bacino, ma non ha
effluenti. Nonostante la relativamente bassa latitudine essendo in ombra dell'Himalaya, e sottoposto
agli influssi siberiani,
è definito come un "deserto freddo", in inverno può avere temperature
notevolmente basse; sono state rilevate spesso in inverno temperature al di
sotto di −20 °C, e
nel 2008 minimi fino a
−26 °C,
con deposizione su quasi tutta la sua superficie di uno strato di neve
ghiacciata di 4 cm.
Yu Chun Shun was born in 1951 in Shanghai. At the age of 6,
his mother came down with schizophrenia. 4 years later, his elder sister
suffered the same fate. During the Cultural Revolution, Yu was sent to a labour
camp after he was caught stealing. He was introduced to Western literature by a
group of intellectuals sent for re-education at the labour camp and from then
on, he became keenly interested in reading and writing.
After his release in 1979, he returned to Shanghai where he
repaired umbrellas for a living. When his father became too weak to work, he
took his place at the factory. He continued his studies and earned himself a
certificate in education. He got married but divorced soon after that.
Yu Chun Shun started his extreme adventures in 1988. He
decided to travel over some of the most hostile terrain in China on foot. He
became the first person in the world to walk into Tibet via Sichuan, Yunnan,
Xinjiang and Nepal. He then did a walking tour of 23 provinces and visited 33
ethnic minorities. He published numerous essays and travelogues, gave 150
lectures and took 8,000 pictures. Though Yu had many fans who respectfully
called him 余老师, he also had many detractors who thought he was mad
like his mother and sister.
(*)
In June 1996, Yu Chun Shun embarked on an expedition to trek 172km across the Taklimakan Desert from Peacock River to an army camp at a place called Luo Bu Bo. He planned a 6-day trek, but there was no sign of him. Search parties on jeeps could not locate him. 12 days from his departure, a helicopter was sent out. They found his body dessicated on the desert sand. Investigations concluded that disoriented from dehydration, he had lost his way.
In June 1996, Yu Chun Shun embarked on an expedition to trek 172km across the Taklimakan Desert from Peacock River to an army camp at a place called Luo Bu Bo. He planned a 6-day trek, but there was no sign of him. Search parties on jeeps could not locate him. 12 days from his departure, a helicopter was sent out. They found his body dessicated on the desert sand. Investigations concluded that disoriented from dehydration, he had lost his way.
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