domenica 15 marzo 2015

MEDEST:Ossigenoterapia: il Giano bifronte della rianimazione cardiopolmonare


E comunque sempre ossigeno A' gogo!
-Prego?
Si, tanto l'ossigeno fa sempre bene!
-Cosa?
Bene che vada risolve l'ipossia, male che vada non fa danni!
-Ma stai scherzando? Ma i danni da iperossia?

La conversazione, ricostruita per fiction, riflette comunque una certa confusione che circonda l’uso dell’O2 terapia nell’emergenza medica sia intra che extraospedaliera.
Prendendo spunto da un recente lavoro sull’uso dell’O2 durante la rianimazione cardiopolmonare, e visto che in letteratura ci sono dati sufficientemente solidi, si può dunque mettere dei punti fermi sull’uso dell’ossigenoterapia, anche durante la rianimazione cardiopolmonare.
Il lavoro a cui accennavamo è Increasing arterial oxygen partial pressure during cardiopulmonary resuscitation is associated with improved rates of hospital admission. Walter Spindelboeck e gli altri autori hanno investigato (in modo retrospettivo su un database irlandese di ACR extraospedalieri) l’impatto dell’O2 somministrato durante la RCP a pazienti vittima di ACR non traumatico.
Durante le fasi di ALS veniva effettuato un EGA ed i pazienti venivano assegnati, a secondo della PaO2 rilevata, a tre differenti gruppi: alta, media, bassa PaO2.
L’outcome primario era l’ammissione in ospedale (e presenza di circolo spontaneo per almeno 1 ora); venivano inoltre registrati la percentuale di ROSC e la percentuale di sopravvivenza a 28 gg.
I risultati, che, va detto, vanno in senso contrario rispetto a quello che gli autori stessi attendevano,  dimostrano che i pazienti del gruppo “alta PaO2″ hanno outcome migliori rispetto a quelli del gruppo medio e basso.
Viene quindi confermato (come raccomandato dalle linee guida ALS 2010), con dati recenti, che la somministrazione di alte dosi (flusso e FiO2) di O2 durante la RCP migliora la sopravvivenza.
Alla ripresa del circolo spontaneo al contrario, tutti i riferimenti di letteratura (2,3,4), indicano come la persistente iperossia inneschi meccanismi potenzialmente dannosi sul metabolismo cellulare, ed è quindi da evitare.
In pratica dopo il ROSC l’ossigeno va somministrato mirando dei target (SaO2, EtCO2) e non indiscriminatamente ad alti flussi e con FiO2 elevate.
La rianimazione cardiopolmonare si configura così come una sorta di Giano bifronte rispetto alla somministrazione dell’O2; il punto di svolta è il ripristino del circolo spontaneo.
Durante la RCP (periodo a bassa pressione di circolo)  a livello intracellulare e tissutale, la tensione di O2 raggiunge livelli appena sufficienti solo con ventilazione adeguata ed ossigenazione massimale (100% di FiO2 ed alti flussi); alla ripresa del circolo, migliorando il DO2, aumenta a livello tissutale (specie cerebrale) il rischio di iperossia, con tutti  i danni che oramai ben conosciamo.
L’ALS e la gestione del paziente post-ACR acquisiscono così un tassello qualificante nel lavoro dispendioso ma spesso povero di soddisfazioni del “resuscitatore”.

La cura dei dettagli, la personalizzazione “ad pazientem” dell’oggettività del semplice protocollo, fa la differenza tra una buona ed un “meno buona” gestione di un ACR.

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